Il quotidiano di Martina fluisce tra privazioni e eccessi, timori fagocitanti le pulsioni vitali e che rendono il mondo esterno ostile e spettatore, mutacico o aggressivo, verso un circolo vizioso che lega il nutrimento alla fame, alla fame d’amore. Il bisogno è presentato come un tiranno a cui obbedire ed eliminare, il rito e la purificazione la strada per liberarsene.
Con una prosa che non ricorre ad orpelli e nascondimenti l’autrice offre una narrazione del corpo in tutto il suo effetto perturbante: denudato, eccitante, ripugnante e nascosto, raccontato nei movimenti quotidiani di distruzione e di più tenera, sommessa e faticosa cura che Martina rivolge a se stessa.
La sua superficie misurata centimetro per centimetro, schernita, analizzata nelle sue più piccole pieghe, distorce e rivela. Si tratta di un viaggio “attraverso lo specchio” in cui il limite offre un’occasione di sperimentazione di confini, spazi, ruoli, rispetto ad una emancipazione che appare legata, impossibile. Nell’avvicendarsi sempre più palpabile, spinto fino alla sua massima estensione, di vita e morte, si scopre la lassità degli spazi in cui i ruoli di donna e madre riscattano e perturbano, in cui bisogno, domanda e desiderio connettono cibo e amore.
Il processo si dipana nel testo riflettendo un’esigenza di ordine: tutto deve essere separato, eccoli, allora, vissuti, desideri, fantasie e immagini restituiti epurati dalla con-fusione. Così il tempo nell’esperienza della malattia riflette l’immobilità e il suo ricorrere identico a se stesso: incredibilmente denso e pesante, rivelando una condizione che esaurisce le risorse vitali e livella le possibilità, lasciando divampare vissuti di colpa che ostacolano la risalita; sconvolge la sofferenza, sembra dirlo a chiare lettere l’autrice, spezza la percezione del fluire, in cui tutto muta, gettando invece verso le terre senza tempo, senza senso della ricerca impossibile. Eppure, nella malattia, si scopre anche l’attimo, di cui ci offre icastiche immagini di vita che raccontano la malinconia e la fugace percezione della felicità. Solo in queste minuscole occasioni il silenzio sembra aprire piccole feritoie; si insinua la scoperta tra l’angoscia e il controllo e Martina riesce a meravigliarsi della possibilità di allentare la forza delle briglie dell’ideale, vivere la propria maternità anche con spensieratezza, provando ad accogliere la bellezza dell’imperfezione.
Lo smarrimento, lo sfaldamento e l’eccesso sono nascosti in una preghiera e una storia che espongono le ferite e il vuoto e conducono il lettore a cogliere il faticoso ma accostabile lavoro di simbolizzazione, imprescindibile sentiero da percorrere per incontrare la vita.